02 Feb Poevisioni
POEVISIONI. Il cinema ritrovato
Rubrica di Maurizio Fantoni Minnella*
CINEMA COME ELABORAZIONE DEL LUTTO NEL CINEMA DI PAOLO SORRENTINO:
E’ stata la mano di Dio, 2021
Può e deve il cinema, tra le sue precipue vocazioni, essere elaborazione di un lutto, rimedio contro la morte?
Se si, lo dovrà essere anche contro la “vita scadente” come la definiva il maestro Federico Fellini, alla quale contrapponeva l’illusione del cinema come fabbrica di sogni e di maschere eternamente più vere del vero. Tuttavia la specifica natura del cinema si rivela pur sempre portatrice di un paradosso: evocare la vita reale attraverso un’ombra proiettata su uno schermo ma al contempo essere fatto di sostanza umana, non di colore o di suono ma di corporeità.
Dall’ultimo e più autoreferenziale dei film di Paolo Sorrentino giunge quindi una nuova riflessione sul cinema e insieme un duplice omaggio alla figura del grande regista riminese.
Nel film E’ stata la mano di Dio, 2021, attraverso il racconto di formazione del protagonista, alter ego dello stesso Sorrentino, troviamo l’altro grande tema del film, la città di Napoli, mai davvero mostrata come in quest’ultimo lavoro. A partire dalla prima sequenza dove osserviamo un surreale schieramento di automobili in piazza Plebiscito fino alle panoramiche su Mergellina, in questo brulicante, sulfureo corpo della città c’è l’ombra di un Diego Armando Maradona troppo sognato e già ancora presente nell’immaginario di napoletani ma non ancora ingaggiato dalla squadra partenopea, c’è la storia di una famiglia media del Vomero, con i suoi personaggi talora calati in un aura di grottesca immobilità che rimanda al cinema del cineasta austriaco Ulrich Siedl e a quello dello stesso Sorrentino, in un intreccio di comicità e di tragedia che si dipana tra la malattia mentale di cui è affetta la bella e sensuale zia e la morte per asfissia dei genitori del giovane protagonista.
Ma se Federico Fellini evocato attraverso un improbabile casting napoletano che molto ci rammenta l’ambiente televisivo ricreato in Ginger e Fred, 1986 e attraverso la voce off del maestro che indica i nomi coloriti di donne aspiranti attrici a un assistente che ne dispone ad una ad una le foto su una parete, si rivela ancora una volta il nume tutelare della poetica sorrentiniana, è invece un altro regista, Antonio Capuano a manifestarsi come presenza profondamente radicata nel tessuto della città, con la sua prosopopea rabbiosa e vitale come il padre ispiratore di Sorrentino, nato come lui dal medesimo milieu napoletano.
Capuano, già autore di opere importanti come Vito e gli altri, 1991 Pianese Nunzio 14 anni a maggio, 1996 e soprattutto come il bellissimo e impietoso Luna rossa, 2001, (che rivisto oggi fa decisamente impallidire Gomorra e i suoi derivati!).
Ecco che nell’inserirsi in un territorio neutro posto idealmente tra Fellini e Capuano, il regista Sorrentino ha trovato la sua vera cifra stilistica, attratto e insieme impaurito dalla bruttezza e dalla volgarità umana, se ne fa pure abile testimone come abbiamo visto da Il divo, 2008 a La grande bellezza, 2013 fino a Loro, 2018, stanca replica del film precedente, non sempre con la stessa felicità d’ispirazione, trovandosi talvolta come nel primo, più a suo agio con le parole, quindi con la sceneggiatura che con le immagini, le quali, in questo caso mostrano con fin troppa chiarezza il tentativo di trasformare la cronaca, la “realtà scadente” nel carnevale grottesco di un’intera nazione, dimenticando forse che la magia felliniana risiedeva nella natura di fantasia dei suoi personaggi, con qualche eccezione dovuta all’inevitabile tentazione biografica come nel Casanova, 1976.
Se infine, dopo la lezione di maieutica impartita da Capuano al giovane aspirante regista, (ma qui non è il protagonista ad essere credibile ma il lo stesso Sorrentino con la sua biografia personale di enorme successo), l’ispido regista si congeda da lui tuffandosi nelle acque del golfo di Napoli come a voler rientrare nel ventre materno (metafora qui assai più felicemente realizzata rispetto a quella bukowskiana di Storie di ordinaria follia, 1981 di Marco Ferreri) il giovane che ha finalmente conosciuto il piacere sessuale con una vecchia e stravagante signora aristocratica, sceglie di lasciare il corpo sempre brulicante di Napoli (quel corpo che così bene Mario Martone aveva mostrato ne L’amore molesto, 1995 al quale è dedicata una citazione nella sequenza della piscina sotterranea), alla volta di Roma, per diventare finalmente Paolo Sorrentino, come il giovane Moraldo de I vitelloni, 1953 di Federico Fellini che a sua volta, nel gioco di illusioni del cinema ha oggi il volto di Sorrentino.
*Maurizio Fantoni Minnella è uno scrittore, saggista e documentarista italiano. Instancabile viaggiatore, ha realizzato oltre trenta documentari su biblioteche nel deserto, lavori notturni, problematiche mediorientali, storie di quotidiana resistenza e molti altri universi sociali, culturali, umani.