27 Dic Classici contemporanei
CLASSICI CONTEMPORANEI
Rubrica di Marco Ercolani*
DARIA MENICANTI
Il concerto del grillo. L’opera poetica completa con tutte le poesie inedite
Mimesis, 2021
Sorprende, nella poesia di Daria Menicanti, il suo nascere, già adulta, nei modi colloquiali e sentenziosi di un Kavafis o di un Penna.
La nettezza del dettaglio narrativo e la complessità con cui questo dettaglio viene lavorato, è quasi “inciso” dal lavorìo sotterraneo delle sintassi. Il dettaglio non si risolve così nel suo semplice apparire ma nel suo procedere obliquo, delineato con toni ora realistici ora visionari. Menicanti lavora dentro il dettaglio fino a farne la matrice di una pietas umana, colta nell’oggetto casuale – un incontro, una riflessione, una scena, le considerazioni sulla spesa quotidiana o il commento desolato a un lutto intimo. L’attenzione al particolare trasforma una “povera ombra” in qualcosa di saldo, di sanguigno, di emotivo, in una confessione di affranto dolore che turba per la trattenuta violenza dell’invettiva.
La sintassi è attenta a registrare, fluida ma esatta, guidata di verso in verso con frasi lunghe e articolate, fino ad effetti finali di sorprendente audacia. E la tessitura dell’enjambement ha qualcosa dell’antico epigramma, della sentenza proverbiale. Verrebbe da dire: l’autrice stila le pagine di un diario, poi le scava, le modifica, ne ricava dei frammenti. Ma qui emerge, con audace chiarezza, l’occhio del poeta: quell’occhio che, combinato agli altri sensi, seleziona la scena e dispone le parole.
Selezione e disposizione non sono l’atto intellettuale caratteristico di questa poesia: al contrario, potremmo parlare dii un abbandono a un paesaggio che è, in prima analisi, psichico, e per il quale, come ci suggerisce Pound, bisogna trovare, come succede soltanto ai poeti, “le parole più cariche di significato”. Oserei dire: nella strutturazione dei versi, nel rapporto fra suono e senso, il significato si delinea come una costellazione di rapporti tra percezione e parola, in un’epifania minima e audace. «In giro me ne vado come un cirro / silenzioso color ombra. Mi piace / stare alto sui tetti a galleggiare / guardando. Io mi sento il palloncino / fuggito dal suo grappolo: una cosa / ironica leggera e all’apparenza / felice (Poeta)».
Come suggerisce Musil: «Oggetto della poesia è quello che si lascia esprimere solo nella poesia».
E in Menicanti le curve della sintassi, le sospensioni, i giri di frase, non possono avere la sensualità musicale e conturbante che caratterizza certe esperienze poetiche più liriche o più appariscenti ma, al contrario, sono le travate minime dell’architettura, le vie ben segnate che conducono l’attenzione al punto nevralgico della poesia, a quel punctum dolens che, attraverso la semplice esposizione del dettato, non poteva essere raggiunto. Menicanti sa costruire una poesia dalla felice “sospensione” narrativa e approda sempre al punto esatto per raggiungere il quale aveva costruito proprio quella poesia: una razionalistica mise en abîme articola le sue movenze sintattiche. I risultati poetici la accomunano a uno straniamento che ricorda, nei poeti contemporanei, paesaggi tipici di un’anima “russa” (Sologub, Achmàtova, Chodasevic) o gli accordi incantati di Sandro Penna. «L’anno si accorcia: l’anno – / dicevano – sta già bruciando gli assi. / Ma il coraggio che occorre / per accettare quello che sei stato / quello che sei – il poco che sei ora – / l’animo che ci vuole / per ricominciare tutto da capo, / coi pochi amici ultimi e le care / cose prima che affondino / affréttati a doppiare a uscire / al largo azzurro e ignoto».
Ma questo “largo azzurro e ignoto” non ha niente di vago e indefinito, di liricamente nebuloso; è un ironico e amaro commiato, la conclusione reale di un cammino dove l’anno, fisicamente, ”sta già bruciando gli assi”. La precisione descrittiva ha sempre una sua laica asciuttezza, uno scetticismo intenso e disperato che mette a fuoco il nodo psichico dell’evento: «aperta / una mano mi guida sulla spalla / e intanto una mi esorta / –presto presto – mi spinge. Ed io impazzita / di terrore agli stipiti mi aggrappo / e grido e prego: non ancora, non / ancora».
Dove il dettaglio quasi soprannaturale dell’apparizione dell’”altro” viene descritto richiamando le scansioni scarne ed essenziali della frase (…impazzita/ di terrore”, “non/ ancora”, “mi esorta /–presto presto”) che, quasi visivamente , rappresentano, come in una ghost story poetica, il “terrore”. «…E soprattutto questo: lo sperduto / rammemorare, l’assentarsi all’altro / che si fa buio, la vecchia canzone / che mano a mano ti diventa stretta, / va cedendo la trama del tessuto / che finché crebbe fu una cosa stessa / di te. Lungo o breve che sia / si scioglie il segno il passo / e a farsi torna una tavola bianca / la mensa già opulenta già odorosa: / i suoi colori perde / il bel velo dipinto / che i superstiti chiameranno vita».
La “vecchia canzone”, il bel velo dipinto, “la trama del tessuto”, cede e perde i suoi colori: temi usuali, “poetici”, si direbbe. Ma come è possibile che questa poesia giunga al nodo del problema con tanta intensità, benché il contenuto sia così scopertamente e banalmente esistenziale? Forse per una sua essenziale joie de vivre oltre il dolore. Scrive Silvio Raffo: «Siamo davvero lontani da ogni teologia negativa, da ogni sindrome melanconica, e con buona pace di Montale ogni “male dii vivere”. È molto più prepotente e invasiva la “gioia” di vivere (di sentirsi ancora vivi). A imporsi con protervia pura e insopprimibile è qui la vis vitalis filtrata dal sentimento». Ancora Daria: «Né Beethoven né Mozart né Gustavo / Mahler, recente mio tesoro, tanto / dicono alla memoria o al presente / quanto una magra canzonetta di / poveri gridi d’amore».
Il segreto di Menicanti è l’alchimia verbale: sa sciogliere sentenze, epigrammi, invocazioni amorose, riflessioni filosofiche, nella tessitura di un racconto quotidiano che non né prosastico né lirico, ma fa apparire naturale e necessario ciò che è un sapiente calcolo di variazioni ritmiche orchestrate con sotterranea precisione: in questa musique de chambre il minimo dettaglio è indicatore di un’epifania perturbante. Ma il “perturbante” è racchiuso nelle strategie raffinatissime della messa a punto dell’oggetto poetico, nell’ars retorica con cui certi effetti vengono voluti e trovati, e così persuadono il lettore. La complessità del lavoro alla fine si dissolve, lasciando il lettore stupito davanti a un testo che sembra essersi scritto da sé ma che è invece il frutto di minime combinazioni linguistiche, al servizio di uno stato di trance dove le leggi della ragione devono sottostare all’emozione primaria. Che talvolta è così semplice e lancinante da apparire, nella sua atemporale sentenziosità, come un motto anonimo: «la vita la seguiteranno ancora / insetti di perfetto cervello / lucidi e neri pullulanti ovunque / beati da morirne».
*Marco Ercolani è psichiatra e scrittore. E’ autore di una vasta bibliografia che comprende saggi, romanzi e raccolte poetiche.
Con Turno di guardia ha vinto nel 2010 il Premio Montano per la prosa inedita. Tra le sue ossessioni: i racconti apocrifi, le vite immaginarie, la poesia contemporanea e il nodo arte/follia.