30 Mar COSE CHE INTERESSANO A ME
COSE CHE INTERESSANO A ME
Rubrica di Stefano Trucco*
IO E LA POESIA
Prima di passare a roba più pop – che so, la storia della caricatura inglese all’epoca delle guerre napoleoniche – vorrei dire un paio di cose sulla poesia, in omaggio al dominus di questa rivista, Claudio Pozzani, che conosco dai tempi della Prima Repubblica e francamente chi l’avrebbe mai detto but you never can tell.
Intanto, non ho mai scritta una poesia in vita mia, nemmeno quando ero giovane e pensavo spesso al suicidio (ne ho messo una in un romanzo ma mi sono fatto aiutare).
Partivo dall’idea che bisognasse sapere delle cose tecniche, tipo il numero di sillabe in un verso, per non parlare delle rime, e fin lì potevo anche farcela, forse, armato di rimario, ma poi crollavo all’idea delle rime interne. Cioè, già avevo problemi seri di blocco dello scrittore (quello più lungo è durato 25 anni), figuriamoci se dovevo anche pensare alla lunghezza dei versi.
Tanto per citare Alain, cosa che mi capita con allarmante frequenza:
“Ma il vero poeta è colui che trova l’idea mentre forgia il verso. Bisogna che la rima abbia una sua ragione. Bisogna che si senta che lo scrittore non avrebbe preso quel giro se avesse scritto in prosa, e che la bella rima ha portato con sé l’immagine brillante, che niente spiegherebbe, che niente nemmeno giustificherebbe senza la necessità di rimare. Miracolo sempre percepibile dall’orecchio del lettore; miracolo che si rinnova continuamente”
Paralizzante, vero?
Ma no, mi dicevano, la poesia oggi non è più così, non è che devi fare degli endecasillabi e nemmeno delle rime.
Anything goes, really. Niente, non mi andava nemmeno così.
A quel punto mi veniva da pensare che la poesia non fosse altro che prosa in cui si va a capo più spesso e un po’ a caso.
Tanto vale scrivere romanzi in cui la marchesa esce alle cinque e fa quelle cose interessanti che succedono nei romanzi, tipo essere stalkerata da un serial killer, innamorarsi di un teppista palestrato della banlieu oppure capitare accidentalmente dentro una distorsione spazio-temporale. Detto questo, è incredibile quanta ne ho letta.
Questo nella foto è il mio scaffale poesia, proprio vicino alla poltrona da lettura rossa e gialla nella stanza dei libri.
Regola ferrea: la poesia non si traduce, quindi a parte l’italiano posso leggere solo inglese (bene) e francese (discretamente).
Dominano le antologie, e in particolare le antologie Penguin, visto che la poesia l’ho scoperta in inglese (io da giovane non leggevo NULLA di italiano, come non sentivo musica italiana e raramente guardavo film italiani: ero un perfetto piccolo anglofilo). Prima di tutto, trovato su una bancarella a 1000 lire molti anni fa, The Penguin Book of Satirical Verse (Pope! Dryden! Byron!), dato che all’epoca la satira mi sembrava importante, e poi il Penguin Book of Romantic Verse e Metaphysical Verse e ovviamente il fondamentale Penguin Book of English Verse.
Le poesie di altre lingue arrivarono anche loro grazie alle antologie Penguin: i ben quattro volumi di French Verse (nei quali scoprii Saint-John Perse e René Char, che saranno al di là della mia portata ma li amo tantissimo), German (sì, lo so cosa avevo detto ma dai, volevo farmi un’idea e poi mi piacciono troppo i vecchi Penguin), Spanish, Russian, Greek, Japanese (amo moltissimo la poesia giapponese ma qui l’impossibilità della traduzione è ineliminabile, secondo me: diciamo che amo moltissimo l’idea che mi sono fatto di cosa possa essere la poesia giapponese) – e naturalmente quello dell’Italian Verse.
Ok, un’antologia inglese di poesia italiana può sembrare un po’ ridondante quindi sostiamo un attimo. L’antologia è del 1965, a cura di George R. Kay. Si parte con San Francesco e ci sono tutti i nomi dovuti. Per l’Ottocento ci sono Foscolo, Berchet, Manzoni, Leopardi – niente Belli o Porta perché, dicono, non scrivevano in italiano – Carducci, Pascoli, D’Annunzio, Campana (niente Gozzano), Montale, Ungaretti, Quasimodo – siamo praticamente a scuola – per culminare con Bartolo Cattafi, ‘whose voice is coming to be recognized as the first of the newer poesia‘, e che io non avevo sentito nominare nemmeno per sbaglio – quindi non Saba o Caproni o Luzi o Pasolini o… vabbè, limiti miei, immagino. O errore di valutazione del curatore, me lo direte voi. Cattafi ha un bel tono di voce, molto parlato, quindi bene, credo.
Chiaro che a quel punto ero, in poesia come tutto il resto, sceso a patti con la mia italianità e quindi ecco le antologie italiane, i Poeti Italiani del Novecento, a cura di Pier Vincenzo Mengaldo, e Dopo la lirica. Poeti italiani 1960-2000, a cura di Enrico Testa, insieme a Sbarbaro e Saba che hanno diritto alle loro antologie individuali, e con loro Auden, Frost, Pope, Browning, Byron, Whitman, Perse, Char… e alla Wislawa Szymborska, che ne ha diritto grazie al fatto che Pietro Marchesani, il suo traduttore, era suo amico e collaborarono (ho pure la biografia) e meno male perché la amo immensamente. E Goethe, chiaro: impossibile farne a meno.
Tornando alle antologie c’è la vecchia Poesia Americana 1850-1950 di Carlo Izzo in tre volumi, il Pocket Book of Modern Verse curato da Oscar Williams nel 1954 e i cinque volumi Everyman di English Verse curati da W. Peacock negli anni Trenta.
Chiaro che c’è Dante (commento preferito quello di Vittorio Sermonti) e Ariosto (letto) e Tasso (è lì, un giorno lo leggo, giuro) e l’Iliade e l’Odissea (quest’ultima anche nella bizzarra versione in prosa di Samuel Butler, quello convinto fosse stata scritta da una giovane nobildonna di Trapani) e in genere ho un certo piacere per la narrazione romanzesca in versi, da cui la simpatia per Robert Browning e la passione per il Don Juan di Lord Byron, probabilmente il mio testo poetico preferito, letto più volte, e che mi da sempre un effetto di leggera euforia, come qualsiasi vino con le bollicine.
L’altro testo che rileggo in continuazione, a piccole dosi, è il Marziale di Guido Ceronetti. Non riesco a immaginare una traduzione più libera e disinvolta, piena di anacronismi e giochi verbali che, ne sono certo, nell’originale non ci sono e si capisce anche non sapendo il latino, e pure parole straniere, ma il risultato è di un tale godimento che chi se ne frega, anzi.
Insomma, tanta roba e pure letta.
Il mio limite è che a differenza della prosa in poesia sono del tutto insicuro del mio gusto, oltre a un generico mi piace/non mi piace non vado e spesso non riesco a stabilire nemmeno quello.
In poesia mi serve l’autorità, sia essa quella delle antologie che quelli dei Nobel (tipo, l’impressione è che nella narrativa l’Accademia svedese sbagli spesso mentre nella poesia abbia un gusto praticamente impeccabile: ma forse questa è solo la perversione del principio d’autorità: ha vinto il Nobel QUINDI è bella). Ditemi che è una poesia è bella e un autore è valido e io leggerò. Mettetemi davanti una poesia anonima e a parte i chiari (chiari?) casi di assoluta incapacità non sarò in grado di dare un giudizio. Insomma, per apprezzare la poesia ho bisogno che il mio hortus conclusus abbia delle pareti di pietra molto ovvie.
Ma a questo punto e a queste condizioni cosa mi serve leggere poesia, a parte il fatto che mi piace e che in genere passo la vita a leggere?
Sostanzialmente l’idea è che anche per un aspirante scrittore come me così portato al romanzo tradizionale con le sue scene di raccordo, piani sequenza, dialoghi fra virgolette e spiegoni finali, c’è un’economia nell’uso delle parole e delle immagini che si impara solo dalla poesia, cioè da una forma d’arte in cui ogni singola parola conta e fa e regge tutto il peso, a differenza del romanzo, dove il riempitivo ha una sua funzione essenziale. Anche una forma che per lungo tempo si è volontariamente chiusa in forme più o meno rigide, tipo i sonetti, mentre il romanzo ha sempre potuto contare su una certa mancanza di forma. Ma il riempitivo, come pure l’informalità, va tenuto sotto controllo e quando conta bisogna riuscire a concentrare l’attenzione come in una poesia riuscita (no, grazie, ci sto provando, ma grazie, davvero).
Le parole giuste e la capacità di racchiudere un’immagine nel minor spazio possibile, queste sono le cose che trovo nella poesia e che secondo me sono utili anche per chi vuole scrivere romanzi di genere come me (come pure il teatro, anche lui una cosa che non si legge più, di cui parlerò un’altra volta).
Che poi funzioni, e funzioni per me, è tutt’un’altra faccenda.
*Stefano Trucco è nato nel 1962 a Genova, dove vive e lavora come bibliotecario. Ha pubblicato due romanzi – ‘Fight Night’ (Bompiani, 2014) e ‘Il Gran Bazar del XX secolo‘ (Aguaplano, 2019) -, il racconto lungo ‘1958. Una storia dell’Età Atomica‘ (Intermezzi, 2018) e un po’ d’altri racconti qua e là.