Poevisioni - Parole Spalancate Le rovine della modernità
Attivo dal 1995, il Festival Internazionale di Poesia di Genova “Parole Spalancate” è la più grande e longeva manifestazione italiana di poesia
Festival, poesia, Genova
2327
post-template-default,single,single-post,postid-2327,single-format-standard,ajax_fade,page_not_loaded,,paspartu_enabled,paspartu_on_bottom_fixed,qode_grid_1300,qode-content-sidebar-responsive,qode-child-theme-ver-1.0.0,qode-theme-ver-13.2,qode-theme-bridge,wpb-js-composer js-comp-ver-5.4.5,vc_responsive
 

Poevisioni

Poevisioni

POEVISIONI. Il cinema ritrovato
Rubrica di Maurizio Fantoni Minnella*


VIAGGIO TRE LE ROVINE DELLA MODERNITÀ’

biblioteca1. Se il XIX° secolo fu l’epoca per eccellenza del culto delle rovine del passato, (il fascino e il mito di Venezia come città che muore come stereotipo del decadentismo ne è forse l’esempio più eclatante, giunto addirittura sino a noi!), l’età in cui la pittura si popola di paesaggi in rovina (come in molte opere dell’artista tedesco David Caspar Friedrich) e i grandi viaggiatori europei (giovani aristocratici o alto borghesi provenienti da Germania Francia e Inghilterra lungo le tappe obbligate del Gran Tour popolato di rovine di antiche città, di templi e di chiese immersi nel nulla di paesaggi indimenticabili), riproponendo in una veste nuova l’estetica del sublime (già presente nell’antichità classica), il XX° secolo si annunciò con le rovine della Prima Guerra Mondiale a cui seguirono quelle della Seconda.

Un immenso scenario di morte improvvisamente si spalancava davanti agli occhi dei presenti: le città erano cumuli di rovine entro le quali si girarono perfino dei film. L’esempio della Berlino di Germania anno zero di Roberto Rossellini, 1948, fu assai significativo di come si potesse fare di esse un’icona poetica per un’etica della storia contemporanea. Nella seconda metà del secolo, con il sopraggiungere della società di massa, dimenticate le rovine della guerra e i traumi che da essa derivarono, si prospettarono nuove rovine o stati d’abbandono: in base a precise leggi economiche o al semplice profitto, si dismettono fabbriche lasciandole al proprio destino. Il fenomeno, massiccio tra gli anni ’90 e il primo decennio del nuovo secolo, viene chiamato tecnicamente delocalizzazione o riconversione.

2. Dalla “fabbrica illuminata” densa di valori e di voci, evocata dal grande compositore veneziano Luigi Nono in una nota composizione elettroacustica del 1964 si è, dunque, passati allo spazio dell’abbandono. In mezzo vi è l’intera parabola della classe operaia giunta al suo punto più basso, quasi una regressione subita e accettata come inevitabile. Ed è proprio la fabbrica, come metastasi urbana, a conservare le tracce e i segni materiali di una storia collettiva trascorsa a cui si sovrappone, in taluni casi, un’altra storia che vive il presente come tempo dell’effimero in un luogo transitorio. Si sviluppano così negli ultimi decenni due fenomeni sociali e artistici di rilievo, collegati ma distinti: il rave party e il graffitismo e la street art.

Prima che questi luoghi cambino destinazione o al loro posto di costruiscano nuovi centri commerciali, il loro spazio sembra dilatarsi attraverso le note ipnotiche della musica techno, accogliendo l’effimero della figura dipinta, sia essa rappresentata da figure mostruose, ordinarie, oppure da semplici geroglifici di una scrittura inventata, come dialogo inconsapevole con la morte e con la propria paura della morte. In altri casi, invece, i contenitori vuoti e trasfigurati dell’economia del passato si trasformano in rifugio di clandestini, persone aliene da ogni forma di cittadinanza, escluse dalla produttività odierna e quindi, prolungamento naturale di queste strutture dimenticate con le loro ampie, talora immense navate nelle quali oggi crescono le piante.

Esistono luoghi come la cosiddetta Cava di Caldè sulla costa lombarda del lago Maggiore, in grado di esprimere entrambe le opzioni, quella della street art e quella del rave party, al punto che esso si è trasformato nel tempo in una sorta di “proprietà pirata”, cioè di tutti, pur tuttavia appartenendo, di fatto, ad una società privata!.
Anche nell’edilizia privata, apparentemente al sicuro, si abbandonano case e ville per le ragioni più disparate che, in fondo, raccontano le vite e i destini delle persone. A farne maggiormente le spese sono, spesso, i manufatti, talora di valore architettonico inconfondibile, riferentisi al linguaggio del liberty, ossia ad un periodo storico tanto più felice quanto effimero, destinato a chiudersi tristemente con l’apparire sulla scena europea della Grande Guerra.

3. Con la caduta del Muro di Berlino avvenuta nel 1989, abbiamo le prime rovine post-moderne di un’epoca, quella del socialismo reale, destinate a diventare oggetto di culto (la cosiddetta Ostalgie intesa come fenomeno tipico della ex Repubblica Democratica Tedesca, assai diffuso tra coloro che ad Est nutrono un rimpianto per quelle cose familiari; e il Muro, in fondo, lo era diventato!) con cui si è cresciuti e vissuti troppo a lungo, e tra quelli che a Ovest guardano ai resti di quella barriera di separazione un errore della storia i cui frammenti sparsi venivano venduti come souvenir ai turisti stranieri in visita a Berlino di nuovo grande metropoli.
Un altro evento epocale ma di natura diversa, la catastrofe atomica di Chernobyl, in Ucraina (1986), dopo avere prodotto la fuga di tutti gli abitanti della cittadina vicina di Pripyat, ha per così dire, generato il prototipo della “città fantasma”, e al tempo stesso, della moda delle città fantasma, visitate in gruppo o in passaggi furtivi e pertanto, avventurosi, tanto da scriverne persino dei libri, in cui la sola possibilità di poter abbracciare in un solo sguardo e di “vivere” un’intera città in rovina, attraverso la memoria cinematografica del tarkovskiano e profetico Stalker, 1979, genera una sorta di ebbrezza, e successivamente, una dipendenza ossessiva che può placarsi soltanto paradossalmente ripetendone all’infinito la visita.

Non sembri dunque singolare che oggi, l’esplorazione delle rovine di ville, fabbriche, alberghi, colonie, luna park e perfino città, come è avvenuto per il borgo fantasma di Craco in Basilicata, e a cui è stato dedicato un film Montedoro, 2016 di Antonello Faretta, trasformato cinematograficamente in luogo della memoria e al tempo stesso di invenzione visiva, sia diventato un ardire poetico attraverso cui riflettere sul significato del tempo e dell’agire umano, o al contrario, un passatempo di alcuni malati di video-avventura, incapaci, forse, di riconoscere la vita nelle cose morte, di stupire i probabili spettatori andando a frugare nelle “cose perdute”, nelle vite che non sono più, in quei resti che non sono persone (per queste ci sono i camposanti) ma oggetti, capaci ancora di sorprendere come se coloro che li vivevano se ne fossero appena andati via per sempre.

Pe finire, si è dunque, passati dal culto delle rovine classiche (immergendosi nelle quali si ha l’illusione che il tempo venga annullato), a quelle in cui, alla contemplazione della bellezza lasciataci dagli antichi, è seguita la percezione di una decadenza che ci è propria, che in fondo appartiene alla nostra quotidianità e per questo continuiamo ad esserne inevitabilmente attratti.

 

 


Fantoni Minnella*Maurizio Fantoni Minnella è uno scrittore, saggista e documentarista italiano. Instancabile viaggiatore, ha realizzato oltre trenta documentari su biblioteche nel deserto, lavori notturni, problematiche mediorientali, storie di quotidiana resistenza e molti altri universi sociali, culturali, umani.